Dimmi che emoji usi e ti dirò quanto sei boomer

Si sa, ogni formulazione di una valida teoria richiede una meticolosa ricerca alla base, svolta con rigoroso metodo scientifico. Ed è per questo che, solo a seguito di un’accurata indagine condotta intervistando un numero adeguato di soggetti (ossia mio fratello Davide di 15 anni), mi accingo a riassumere qui gli attendibilissimi risultati del mio lavoro.

Mettetevi comodi, ché il tema è caldo e complesso.

Si parla dell’uso improprio delle emoji da parte di tutti quelli che, ahinoi, non sono più teenager (a chi non interessa?). Il cuore del problema è il seguente: più l’età avanza più si tende all’iper-utilizzo delle faccine nel disperato tentativo di avvicinarsi al mondo dei giovani, con il solo effetto di produrre il risultato, diametralmente opposto, di sembrare degli sfigati anziani che ci provano troppo (“boomer” per dirla alla Davide & co.).

Ma non basta. Non è soltanto il “consumo” smodato a rivelare il fraintendimento del simbolo, ma anche il criterio con cui è operata la selezione: a quanto pare tutti gli ultraventenni (e sul punto ci tengo a precisare che ho esteso il campione degli intervistati ai miei tre altri fratelli, per l’appunto ultraventenni), quando scelgono un’emoji, cercano di esprimere un concetto specifico e ben definito, mentre la rivoluzione culturale nel modo di comunicare della Generazione Z risiede, al contrario, nel loro utilizzo “random” e non letterale.

Non esiste nulla di più lontano dalla coolness telematica propria dei minorenni, insomma, che la ricerca di una perfetta corrispondenza tra l’immagine e l’emozione che si vuole esprimere (sorriso per felicità, pianto per tristezza e così via). La tendenza, anzi, suscita, nei nati dal 1997 in avanti, sdegno ed imbarazzo (sempre mio fratello Davide qualche giorno fa non faceva che deridere nostra madre per il suo continuo rispondere con il pollice in alto nel gruppo whatsapp di famiglia).

E così l’adolescente medio, bollando certe immagini come totalmente obsolete e bandendone per sempre l’uso nelle proprie chat (il pollice su è una di queste, se non si fosse capito), è in grado di determinarne addirittura la dismissione a livello globale.

Un esempio eloquente al riguardo (al di là del colloquio con i miei familiari ho letto anche qualche articolo sul tema, lo ammetto) è rappresentato dalla celeberrima faccina che ride fino alle lacrime (“Face with Tears of Joy” ), che nel 2017 Apple ha definito come la più popolare negli U.S.A., ed il cui impiego oggi è diventato inequivocabile sintomo di anzianità, a quanto pare (confesso che io stessa la digito senza vergogna e senza paura almeno 10 volte al giorno).

“Dimmi che sei vecchio senza dirmi che sei vecchio” direbbero i coetanei di Davide.

Ma perché? E qual è allora il segreto dell’eterna gioventù (virtuale, almeno)? E se sto piangendo dalle risate che emoji devo usare?

Fosse facile.

La risposta all’ultima domanda sembrerebbe essere l’immagine del teschio, che starebbe a significare “sto morendo” (e fin qui un certo senso potremmo trovarlo persino noi ultratrentenni, al di là dell’effetto immediato che una testa di morto suscita nei nostri cervelli troppo semplici e banali).

Ma la verità è che ci tocca ammettere che ci siamo illusi di poter stare al passo con i tempi, credendo di comprendere i meme e  di poter tradurre ogni nuovo slang, mentre invece esiste un mondo di norme e di trend a cui noi millennial non riusciamo a star dietro in alcun modo.

E così restiamo attoniti ed un po’ scorati quando delle faccine che esprimono oggettivamente determinate sensazioni vengono discriminate o sostituite improvvisamente e d’imperio.

E probabilmente non capiremo mai perché di questi tempi l’emoji con il cappello da cowboy venga usata per indicare disagio o imbarazzo.

Un po’ cringe, no?